Ricerca Eurostat: solo il 16% degli italiani parla due idiomi. John Peter Sloan: «Non vi divertite, nelle scuole metodi sbagliati»

In tanti, praticamente tutti, studiano la seconda lingua (cioè l’inglese) e spesso la terza (almeno fino alle medie inferiori, per poi perderla alle superiori): il 98,4%. Eppure qualcosa non funziona: solo il 16% degli italiani parla infatti due lingue contro il 21% della media europea. E il 40% – forse è questo il dato più preoccupante – si ferma alla lingua madre. Numeri Eurostat da cui esce una situazione parzialmente contraddittoria: quella di un investimento a fondo perduto per il quale gli sforzi compiuti fino alla cosiddetta secondaria di primo grado di sfalda fra licei e istituti, lasciandoci sotto la media continentale.

Non solo scuola: difficile recuperare competenze durante le superiori e più avanti visto che continuiamo a fruire pochi contenuti in inglese, contrariamente ai Paesi nordici come Svezia, Danimarca e Olanda da anni al vertice delle classifiche della Ef. I film testardamente doppiati in italiano sono il simbolo di questa clamorosa pigrizia culturale ma lo stesso potrebbe dirsi della lettura, della musica, dei viaggi.

Una lingua va vissuta e, anche se non ci si può trasferire tutti a Londra o New York, ci sarebbero molti modi per utilizzarla quotidianamente fin da piccoli, per esempio con i cartoni animati non doppiati o un lavoro più attento del genitori. Che ovviamente, a loro volta, dovrebbero masticare almeno un po’ d’inglese. Una soluzione per ovviare ai film doppiati in italiano sta nei tanti servizi di streaming come Netflix, che propongono i contenuti in varie lingue con o senza i sottotitoli, ma anche con le smart tv che consentono spesso di selezionare la lingua originale nelle pellicole trasmesse dalle emittenti digitali. Stesso discorso per Sky. Numerose anche le applicazioni per smartphone e tablet, come Fluentify, per imparare l’inglese parlando. Insomma, basta un po’ d’impegno.

Tornando alla scuola, il Corriere della Sera ha messo ieri in evidenza un ulteriore contrasto. Da una parte la presenza dell’inglese e di una seconda lingua straniera è evidentemente aumentata (dalla materna all’università fino alla Clil alle superiori) ma rimangono ancora troppi i curricula di studio che non prevedono la seconda lingua straniera o continuano a dedicare poche ore all’inglese.

Qualcosa, anche sotto il profilo dell’aggiornamento, dovrebbe cambiare grazie all’ultima riforma della scuola targata Matteo Renzi: arriveranno 40 milioni di euro in tre anni per la formazione dei docenti su lingue e digitale e i nuovi prof dovranno affrontare una parte del concorso in lingua. Insomma, in prospettiva le cose miglioreranno. Intanto, però, dovrebbe cambiare la didattica: la lingua, più che materia essa stessa, dovrebbe farsi veicolo di apprendimento e, in definitiva, di vita.

John Peter Sloan è il più popolare (e, a detta di molti, il più bravo) insegnante d’inglese attivo in Italia. Attore e autore comico, musicista, scrittore, ha messo a punto un metodo che punta tutto sul divertimento e l’umorismo. Ha scritto e pubblicato numerosi corsi di lingua distribuiti in edicola e le sue scuole di Roma e Milano, lanciate nel 2011, organizzano percorsi cuciti su misura degli studenti con contenuti audio e video pensati ad hoc.

Qual è il tuo giudizio sull’insegnamento dell’inglese nelle scuole italiane?
«Il grande problema degli italiani è che iniziano a studiarlo tardi e male. Ciononostante io difendo sempre gli insegnanti italiani. Sapere una lingua non significa infatti saperla trasmettere: anche un docente ha bisogno di un docente per sapere come insegnare. Il mio lavoro è riparare i danni. Gli italiani hanno d’altronde una specie di blocco con la lingua inglese: sono intelligenti, sanno di padroneggiarla male e quindi anziché sposarla e praticarla preferiscono evitarla. Nei Paesi nordici misurarsi con l’inglese è una cosa di moda, si inizia da bambini con i cartoni in lingua originale, qui viene vista come snobismo»

Di chi sono le responsabilità?
«Personalmente ritengo responsabile chi comanda. Ti faccio un esempio: sono tre anni che mi metto a disposizione della tv italiana, vorrei realizzare delle trasmissioni per bambini. Anche gratis. Nessuna risposta, gli amministratori se ne fregano. Ed è un peccato perché l’italiano è una lingua ricca e creativa, piena d’immaginazione, sarebbe perfetta per aiutare chi la parla a imparare facilmente altre lingue».

Perché gli italiani faticano così tanto con l’inglese?
«Perché non si divertono. D’altronde una lingua è un puzzle e impararla dovrebbe essere divertente, proprio come praticare il proprio hobby preferito. Dovresti aver voglia di migliorare senza faticare. Invece nelle aule italiane il divertimento è zero, si usano metodi e corsi che non sono pensati per gli italiani, si punta tutto sulla grammatica e poco sulla conversazione. Neanche gli inglesi conoscono la propria grammatica tanto quanto gli italiani».

Quali consigli daresti a chi vuole migliorare: film, musica, viaggi?
«Bisogna muoversi con cautela. Sia come libri che come film va bene la saga di Harry Potter, che ha un inglese molto ricco. Ma anche le commedie con Hugh Grant o Colin Firth. In generale, tutte le pellicole scritte dallo sceneggiatore Richard Curtis. Quanto alla musica, consiglio i Beatles prima di Sgt. Pepper mentre eviterei i rapper americani alla Eminem e compagnia. Secondo punto: bisogna viaggiare. Meglio, però, evitare Londra, ormai inflazionata. Il mio consiglio è scegliere Liverpool e il Nord dell’Inghilterra. Lì la gente è più aperta, ha un’ammirazione per l’Italia, si trova più facilmente lavoro e si parla un buon inglese».

Pubblicato il 09/02/2016 da Simone Cosimi in VanityFair